14 ottobre 2018

Danzando tra le campane di Nine Bells

 
Intervista a Simone Beneventi, tra musica, matematica e improvvisazione. E sul concetto di “durata”, per aggirare la deconcentrazione contemporanea e vivere l’esperienza dell’azione

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Nine Bells è una performance sull’installazione di nove campane a lastra, dall’opera omonima del compositore Tom Johnson. Autori il danzatore-coreografo Valerio Longo, il percussionista Simone Beneventi – Leone d’argento alla Biennale musica di Venezia 2010 -, e il light designer Carlo Cerri. Abbiamo intervistato il musicista Simone Beneventi. 
Conoscevi la musica di Tom Johnson per aver già suonato altre sue composizioni. Ma è la prima volta che lavori su questa partitura che lui stesso ha definita “di svolta”, perché è quella che ha aperto la sua fase compositiva più importante. 
«Nine Bells (1979) è un’opera chiave nella produzione di Tom Johnson, supera l’approccio matematico e lo sviluppo generativo, tipico della sua musica, per sconfinare nella performance vera e propria, nell’uso figurativo dello spazio e nell’architettura di corpi sonori. È sintesi tra creatività (si tratta pur sempre di una composizione musicale ricca di tensioni, idee e d’invenzione) e disciplina verso schemi e computi che governano tanto il materiale musicale quanto i movimenti dell’esecutore. Nine Bells esplora le molteplici combinazioni di 9 campane sospese in una griglia 3 × 3, dove ogni campana è situata a circa 2 metri di distanza dalle altre. Divisa in nove movimenti, ciascuno comincia dal suono di una diversa campana e si compie mostrando tutto il processo di elaborazione di una formula iniziale, creando quindi percorsi geometrici dalle figure ogni volta diverse».
L’opera nasce non come composizione scritta per essere suonata da altri, ma come performance eseguita dallo stesso Johnson. 
«Nacque come sua performance, ma, dato il notevole impegno fisico (l’opera dura circa 50 minuti nei quali si corre o cammina senza sosta), avanti con l’età Johnson decise di trascrivere su partitura tutte le istruzioni, per permettere ad altri esecutori di realizzarla in seguito. In quel momento nacque quindi la partitura, scritta in forma tradizionale (note su pentagramma, con divisioni di battuta, durate, pause, dinamiche etc.) e dove le indicazioni di metronomo vanno a riferirsi non soltanto alla velocità della musica, ma anche a quella dei passi, talvolta precisando anche con quale piede cominciare. Completano la partitura, e sono di grande utilità per la memoria dell’interprete, i disegni dei nove percorsi tra le campane, generati da ciascuna scena. Nella prefazione è inoltre indicata l’intonazione e la posizione esatta dove collocare i nove strumenti sul palco».
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Nine Bells di Valerio Longo, Carlo Cerri e Simone Beneventi, foto di Giuseppe Distefano
La scelta del tipo di campana è invece lasciata alla discrezione dell’interprete. 
«Tra i pochissimi che si sono fino ad oggi cimentati con questa partitura (una decina forse in tutto il mondo), c’è chi ha preferito usare campane tubolari, o da chiesa, di ceramica o terracotta. Noi abbiamo scelto delle campane a lastra d’ottone, di forma rettangolare. Le prime campane che utilizzò Johnson erano le calotte rosse delle campanelle con martello meccanico che suonavano l’intervallo nei corridoi dei college statunitensi. Ne aveva scelte dunque nove, corrispondenti per intonazione ad altrettante note (in realtà otto, essendo una nota ripetuta due volte), per poi sospenderle con dei fili calandole direttamente dal soffitto e suonarle quindi manualmente, con un battente. Per farlo è perciò necessario muoversi nello spazio secondo velocità e traiettorie diverse per ciascuno dei nove movimenti. È evidente che un’opera del genere non può essere realizzata leggendo la partitura, percorrendo il palco per 50 minuti portandosi appresso uno spartito: deve essere eseguita a memoria».
Quindi dal punto di vista formale, e di tempi, è proprio il gioco matematico che governa un po’ tutto il sistema. 
«Una delle tecniche compositive dominanti nell’opera è quella, rigorosa, della permutazione: partendo da una sequenza musicale, cambiando o spostando un elemento, una pausa, una nota, si crea una variazione, e la partitura diventa il ciclo intero di tutte le possibili variazioni. Da cui ne deriva la durata di ciascun movimento: la scena, come un inesorabile ingranaggio, si arresta solo dopo aver compiuto tutta la sua evoluzione. Il procedimento è talmente esplicito da risultare subito evidente anche osservando la partitura dal punto di vista grafico (prima ancora di leggerne e interpretarne i valori), nelle simmetrie e sequenzialità di note e pause; e lo stesso vale per i movimenti del performer nello spazio: continue variazioni di un’unica figura generatrice. Un aspetto interessante e peculiare è quello del duplice piano sonoro e temporale, ricco di significato. Il primo, che possiamo chiamare “tempo soggettivo”, è dato dal suono emesso dalle campane, con un ritmo a volte più intenso e serrato, altre più disteso e calmo, e che dipende comunque dalla forza, dall’espressività, dall’energia del gesto dell’interprete. Il secondo, “tempo oggettivo”, è dato dal rumore dei passi, il quale non è affatto un rumore residuale, di disturbo, ma fortemente strutturale. È il Tempo con la T maiuscola, che scorre inesorabile e reso udibile dai passi, come ticchettio d’orologio: è il moto perpetuo su cui appoggia il discorso musicale delle campane. Nonostante l’originalità del progetto e l’estremo rigore, che sembra annullare l’umanità e l’espressività appartenente alla musica a cui più siamo abituati (il canto in primis), in un certo senso Nine Bells è ancora una composizione classica: vi si alternano, come in una sinfonia, movimenti veloci, lenti, allegri, adagi, scherzi, tonalità maggiori e minori, tempi ternari e binari, marce, giochi contrappuntisti etc…».
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Nine Bells di Valerio Longo, Carlo Cerri e Simone Beneventi, foto di Giuseppe Distefano
L’aspetto performativo è imprescindibile perché non si può eseguire la partitura se non facendo esattamente determinati movimenti e passi. Con Valerio Longo e il light designer Carlo Cerri come avete lavorato per accordare musica e danza, matematica e improvvisazione? 
«Essendo una partitura definita, che nega in maniera assoluta lo spazio all’improvvisazione, abbiamo riflettuto soprattutto sulle caratteristiche di ciascun movimento, e sulla sovrapposizione di coreografia e musica, prendendoci tutte le poche libertà che il compositore concede in maniera più o meno esplicita, quale ad esempio la possibilità di ripensare l’ordine dei nove movimenti, e creare così, con la coreografia originale, un nuovo percorso narrativo. E’ stato utile, in fase iniziale, identificare simbolicamente ciascuno di essi con un’idea archetipica, o un’immagine tecnica e concreta. Ad esempio, uno è stato rinominato in fase di studio “passo a due” in quanto giocato sull’alternanza di due elementi facilmente identificabili come “maschile e femminile”: suoni molto spigolosi, metallici, taglienti, e suoni rotondi, morbidi, in dialogo fra loro all’interno dello stesso schema. Quando abbiamo scelto questa partitura, era evidente a tutti e tre che si trattava di una sfida impegnativa. Creare su una musica talmente rigorosa e unitaria (e ingombrante anche in termini di spazio, per via della voluminosa installazione) una coreografia che non risulti una sovrapposizione ma qualcosa di integrato, è più complesso rispetto a lavorare su una musica articolata in funzione delle esigenze coreografiche: improvvisata o scritta, registrata o eseguita dal vivo, pre-esistente o creata ex-novo che sia. Fondamentale è stato dunque trovare una chiave di lettura per ciascuno di questi movimenti e permettere un accesso a Valerio tanto come coreografo quanto come esecutore. Ma, avendo ciascuno dei nove movimenti un’identità, un’anima talmente forte e differente, quella che sembrava una sfida troppo ambiziosa si è rivelata un’opportunità preziosa per mettere in gioco le reciproche sensibilità».
Ci sono quindi dei momenti d’interazione? 
«A volte Valerio entra dentro l’installazione e suona, si muove con me, guidato dal tempo dei miei passi. È una pulsazione alla quale tutto si ricollega, anche nelle parti più libere e informali dove il tempo dei movimenti del danzatore è completamente svincolato dalla struttura rigorosa».
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Nine Bells di Valerio Longo, Carlo Cerri e Simone Beneventi, foto di Giuseppe Distefano
Allo spettatore cosa può suscitare emotivamente una simile partitura apparentemente fredda? Quali consigli daresti per entrare dentro la visione e l’ascolto di Nine Bells? 
«Le arti performative oggi devono fare i conti con una capacità e un’attitudine alla ricezione e alla concentrazione sicuramente più limitate rispetto al passato. Nine Bells è una sfida. Un’opera di 50 minuti, con pochi elementi, ma all’interno dei quali c’è un’alternanza sottile, chiede al pubblico anche un po’ di sforzo: non fermarsi all’impatto dato dal primo movimento, dalle prime battute, dai primi passi, ma di aprirsi ad un universo sonoro nuovo e ad una performance originale e autentica. Una volta entrati in questo suono molto riverberante e avvolgente, l’orecchio si abitua, l’occhio inizia a cogliere anche i movimenti del performer, a riconoscerne le geometrie, e, perché no, a godere di un gioco matematico e di forma, che ha una sua bellezza. La situazione più idonea, ma impossibile da realizzare, sarebbe avere lo spettatore dentro il reticolo delle campane. Con una disposizione tradizionale del pubblico in platea, non è dato ad essi di vivere l’esperienza immersiva dentro questo spazio vibrante che invece sperimentiamo io e Valerio: muovendoci tra queste fonti, 9 sorgenti sonore distinte, in una variazione continua di vicinanza e lontananza, l’ascolto è assai cangiante e naturalmente diverso da quello frontale dove tutti i suoni si miscelano e arrivano, più o meno distintamente, al pubblico. La fruizione ideale, già praticata e suggerita anche da Johnson, sarebbe avere tutto il pubblico attorno alle campane: una vicinanza che accresce il valore dell’esperienza. Un’altra risorsa che aiuterebbe il pubblico ad entrare ancora più in contatto con l’opera, sarebbe quella di visualizzare dall’alto i movimenti geometrici dei percorsi, per esempio riempiendo il suolo di sabbia, in modo che, insieme alla scia sonora di risonanza, rimanga anche la traccia dei passi, i quali disegnano via via cerchi, ellissi, stelle, diagonali».
Ciò non toglie che l’ascolto richiesto sia impegnativo… 
«Sì e no. Da un lato è una musica molto semplice e lineare, che rinuncia alla complessità della musica classica, solitamente densa di informazioni che si stratificano creando un’architettura musicale sia verticale (armonica) che orizzontale (melodica), realizzata con mezzi talvolta complessi come l’orchestra sinfonica o più semplicemente, ma non meno intensamente, con pochi strumenti da camera. Certamente un tema conosciuto è molto più gratificante, più facile da ascoltare. Qua è diverso. Sono poche note, sono formule, e credo che possa essere di grande soddisfazione per lo spettatore riuscire a comprenderne il funzionamento, perché nella sua semplicità si lascia leggere, capire, ascoltare anche negli elementi più strutturali. Cosa invece assai più complessa per quanto riguarda la musica classica dove l’ascolto analitico è materia per pochi. Anzi, credo che dopo un po’, entrando nel gioco, formule semplici diventino intuibili al punto che il pubblico, riconoscendole, può quasi anticiparne la soluzione, il seguito. Tutto questo non sostituisce di certo l’esperienza emotiva dell’ascolto spontaneo, che nemmeno qui però viene a mancare. Sta agli interpreti mantenere viva nel proprio percorso di ricerca, l’importanza centrale della comunicazione con il pubblico: qui sta la sfida di Nine Bells».

Giuseppe Distefano

Nine Bells, progetto sostenuto dalla Fondazione Nazionale della Danza Aterballetto, dopo l’anteprima, il 6 ottobre, al Teatro Verdi di Padova per il festival “Lasciateci sognare”, ha debuttato il 10 ottobre alla Fonderia di Reggio Emilia, e il 13 ottobre al Teatro Franco Parenti di Milano all’interno del cartellone “Autunno ai Bagni Misteriosi”. 

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