15 novembre 2018

Al PAV di Torino, Zheng Bo mostra l’ambiguità del rapporto tra natura e uomo. Senza veli

 

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Nell’ultima raccolta di racconti che l’editore Future Fiction ha dedicato alla fantascienza contemporanea cinese, la natura è la protagonista – non troppo silenziosa – di molte storie, scritte da autori relativamente giovani ma già affermati nel panorama internazionale, alcuni dei quali anche vincitori di diversi premi di primo piano nel settore e tradotti in diverse lingue, come Liu Cixin, Xia Jia, Chen Qiufan e Wu Yan. Il tema ecologista, quando non espressamente al centro dello sviluppo narrativo, è almeno citato come sottofondo a tecnologie avanzatissime, in un dialogo molto critico, se non stridente, tra natura e artificio. Questa preoccupazione deve essere molto sentita a quelle latitudini ed è inevitabilmente riferita a un’analisi sociale, politica e storica tanto aspra quanto precisa che, peraltro, lascia bene immaginare la pesantezza di un annoso senso di colpa. Ed è esattamente questa trepidazione, tanto intellettuale che sensuale, ad animare la ricerca di Zheng Bo, artista nato nel 1974 a Beijing, la cui poetica si è sempre concentrata sul potenziale, sia estetico che eversivo, della natura e delle piante spontanee. 
E quale luogo migliore, per esporre tali opere, del PAV-Parco Arte Vivente di Torino? Il centro concepito da Piero Gilardi e diretto da Enrico Bonanate si estende su un’area ex-industriale di circa 23mila metri quadrati, di cui la maggior parte tenuti a giardino, e sembra essere lo spazio più adatto per “Weed Party III”, la mostra, a cura di Marco Scotini, che inaugura la nuova stagione espositiva del PAV, dedicata al rapporto tra ecologia e arte nel continente asiatico. L’esposizione è il terzo capitolo di una serie iniziata con il giardino d’erbacce e terra realizzato da Bo per l’interno del Leo Xu Projects di Shanghai nel 2015, proseguita con il lavoro sulle felci per TheCube Project Space di Taipei nel 2016 e, adesso, approdata in Italia. 
La mostra si sviluppa totalmente negli ambienti interni del PAV e si apre con After Science Garden, una installazione-giardino composta da piante in vaso e filamenti luminosi che si adatta a malapena all’ingresso, non trovando il respiro giusto, asfissiando la fruizione e congestionando il flusso tra persone e opera. Survival Plant Manual I e II è una elegante indagine calligrafica compiuta ricopiando a mano le illustrazioni e le descrizioni contenute negli elenchi di piante selvatiche commestibili di Shangai e di Taiwan, testi rispettivamente del 1961 e 1945. I registri si sovrappongono, le definizioni enciclopediche sembrano castigare la spontaneità delle piante oppure succede il contrario ma Bo riesce ad armonizzare quella che sembra essere una sfida di sopravvivenza giocata tra le piante e gli uomini. Anche in questo caso, purtroppo, lo spazio non aiuta, con i fogli che perdono molto della loro gradevolezza e autonomia, allestiti su due pareti di servizio, di transito, quasi come se fossero lì per caso o, peggio, per necessità. In esposizione anche Pteridophilia, video sulle declinazioni eco-queer che già fece scalpore a Manifesta 12 e che riprende sette giovani uomini intrattenere rapporti intimi con diversi tipi di felci in una foresta di Taiwan. Più che esplicita o “naturale”, si tratta di una sessualità difficilmente definibile, a tratti mitologica, che può apparire tanto come esercizio di sopraffazione che come manifestazione di empatia, perché poi, in fondo, ambiguo è sempre stato il rapporto tra uomo e natura. 
A prescindere dal valore estetico delle opere e della ricerca di Bo – che trova la sua ragione d’essere soprattutto se inserita in un più ampio discorso ecologista di definizione asiatica – al PAV rimane l’impressione di una impossibilità diffusa. Ed è un vero peccato. (mfs)

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