21 gennaio 2019

Sulle tracce dell’appartata ricerca di Umberto Buscioni, a Palazzo Fabroni di Pistoia

 

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Una quarantina di opere, selezionate da Gabi Scardi, curatrice della mostra a Palazzo Fabroni, aperta fino al 27 gennaio, propongono un focus sull’intero percorso artistico di Umberto Buscioni (1931). Dipinti per lo più, a olio, alcuni anche di grandi dimensioni, che scandiscono le differenti fasi della sua produzione. 
Buscioni, seppur sia nato e abbia vissuto in provincia è sempre stato conscio dei fenomeni artistici che lo circondavano e i suoi punti di riferimento vanno dalla Pop Art degli anni Sessanta al Postmoderno e al Citazionismo degli anni Ottanta e, con questo universo, si è ampiamente confrontato, pur mantenendo sempre una propria autonomia, sia stilistica sia d’intenti. Dopo timidi inizi legati all’Informale, tra il 1965 e il 1969, condivide idee e orientamenti con Roberto Barni, Gianni Ruffi e Adolfo Natalini, in quella che è stata definita da Cesare Vivaldi la Scuola di Pistoia. I temi cui guarda il gruppo di pistoiesi sono quelli che provengono dall’arte pop che si era imposta in Europa con la Biennale di Venezia del 1964, ma gli esiti sono del tutto diversi anche perché il consumismo americano non è paragonabile a quello della provincia italiana. Se già dal 1964 la finestra è un elemento cardine nell’opera di Buscioni, gli anni successivi vedono l’introduzione di soggetti che provengono dal mondo della pubblicità come la motocicletta, che l’artista trae dai cataloghi della Gilera. 
Gli anni Sessanta sono comunque molto densi: i colori pastello si associano a quelli sgargianti delle cravatte, la camicia a righe o la giacca bianca paiono animate da un corpo invisibile. Il vento, un vento silenzioso e garbato, è spesso il protagonista che fa vivere le opere di Buscioni, gonfia le camicie, sconvolge le tende, scompiglia le cravatte. Il prato verde, quasi stilizzato, è il terreno neutro che accoglie le motociclette o le scarpe da ginnastica, oggetti che paiono avere una loro interna umanità. La figura umana, l’uomo, quello in carne e ossa, non compare mai se non in labili particolari di mani che spuntano qua e là. Gli inizi degli anni Settanta sono caratterizzati da grandi tele con lingue di colore oblique ton sur ton accostate in modo ritmico e dinamico.
Nel secondo versante del decennio si impone un cambiamento piuttosto netto nella ricerca artistica di Buscioni. Il clima socioculturale è cambiato e l’artista volge uno sguardo al passato, iniziando un trend nel quale la storia dell’arte assume un ruolo determinate. Il repertorio iconografico è quello del Rinascimento e del Manierismo: nascono così opere con una scansione geometrica di fondo nelle quali permangono, per affezione, alcuni oggetti di uso quotidiano e nelle quali sono evidenti delle porzioni con tocchi di colore frammentato. Con l’inizio degli anni Ottanta, la classica tela rettangolare lascia spazio alla pala, al trittico, alla predella, alla lunetta. Sarà principalmente il Manierismo toscano a imporsi e Buscioni guarda con maggiore intensità alle opere di Beccafumi, Rosso Fiorentino e in particolare di Pontormo. L’artista si misura, con la maestosità di tali opere, con la vorticosità del colore, con la drammaticità delle forme e dà un’interpretazione dei temi religiosi molto laica. 
Gli anni Novanta vedono un altro cambiamento di rotta, la serie Nostre Ombre dà avvio a una fase pittorica più cupa, dove si percepisce un senso di solitudine e di ripiegamento, di lontananza e di isolamento anche se resta fedele ai suoi classici stilemi. La sedia, che nei periodi precedenti ha “accolto”, ha perso il suo ruolo, il cappotto prende il posto della camicia bianca, gli spazi liberi e i cieli azzurri sono sostituiti da stanze popolate da armadi e da specchiere che replicano le figure umane dai volti stralunati come fantasmi. Le opere più recenti rimangono su questa scia, prevalgono i colori freddi, i blu notte, i verdi petrolio, i grigi intensi; i pesanti cappotti invernali, i manichini da sartoria danno un senso di spaesamento e di labilità. 
Al di là dei soggetti, dei temi e dei riferimenti culturali cui l’artista guarda, la costante che Buscioni porta avanti per tutta la sua carriera artistica è la “pittura”, intesa come linguaggio espressivo, forte e potente, come maestria nell’uso del colore, come “mestiere” condotto con rigore e costanza. A conclusione della mostra, sabato 26 gennaio, Giovanna Uzzani, alle ore 18, terrà una conferenza, a Palazzo Fabroni, dal titolo “Folle allegria e apprensione metafisica. Appunti intorno all’opera e alla mostra di Umberto”. (Enrica Ravenni
In home: Umberto Buscioni, Bagno di Betsabea, 1975 
In alto: Umberto Buscioni, Sul filo di lana, 1967

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