29 marzo 2019

AVANTI & INDIETRO

 
Ottava conversazione con David Rickard, nato in Nuova Zelanda nel 1975, ma da anni residente a Londra
di Raffaele Gavarro

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Tutto il lavoro di David Rickard è concentrato sulla comprensione del rapporto in atto tra la percezione della realtà e quella che potremmo definire come la sua natura intrinseca, ove e quando sia possibile definirla.
Partiamo quindi e proprio dalla realtà, dal nostro attuale rapporto con essa reso ancora più complesso dal suo estendersi sul piano del digitale, al quale ormai riconosciamo analoga concretezza e la cui percezione è sempre più assimilabile a quella del piano concreto, analogico. Dando per scontato che l’arte, come tutto il resto, si trovi e agisca in questo contesto, quale pensi siano le conseguenze per tutti noi di una percezione così articolata? Stiamo perdendo o acquistando qualcosa?
«Appare sempre più chiaramente che il nostro rapporto con la realtà sta cambiando in modo molto veloce. Innanzitutto, sempre più cose avvengono all’interno dei nostri ambienti digitali avendo un profondo impatto sul mondo fisico: dalla produzione al movimento dei beni, ma anche l’assistenza sanitaria, lo sviluppo delle comunità e anche l’affermazione e la pratica della politica. Tuttavia, penso che la nostra comprensione del mondo fisico abbia subito profondi cambiamenti prima dell’avvento dell’era digitale. Per esempio la scoperta della scala atomica e la comprensione che la materia solida è in gran parte spazio vuoto governato da forze intermolecolari, ma anche lo sfruttamento di onde elettromagnetiche che passano semplicemente attraverso la materia solida. In qualche modo ho la sensazione che il mondo reale sembri sciogliersi intorno a noi mentre il mondo virtuale diventa sempre più solido. Quindi, sono d’accordo che la nostra percezione stia diventando sempre più stratificata e complessa e penso che stiamo ottenendo molte cose attraverso questo processo. Tuttavia, nonostante la notevole velocità con la quale ci stiamo adattando al nuovo ambiente, a volte mi sembra che sia in atto una vera e propria lotta per adattarci ad un mondo fluido che è sempre più saturo d’informazioni».
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X, 2018, C-type photographs, Courtesy l’artista e Galleria Michela Rizzo
Una lotta che non mi pare esagerato definire per la sopravvivenza, nella quale la prima cosa in gioco, credo, non è solo, o tanto, la comprensione della natura nuova e articolata della realtà, ma l’essenza stessa della nostra identità in essa. Se ci pensi, essendo noi stessi produttori infaticabili della realtà, essendo quest’ultima parte indissolubile della nostra esistenza, il bisogno di comprendere l’una passa attraverso la comprensione dell’altra, e viceversa. Mi vengono in mente i tuoi Test flights del 2009. Veri e propri esperimenti sulla gravità, sulle conseguenze della caduta di un grave, la cui violenta (è proprio il caso di dire) metafora parla della gravità fisica e interiore che condiziona molta parte della nostra esistenza.  
«Mentre rileggevo le tue parole un paio di volte ho pensato di essere in lotta con Google traduttore, che tra l’altro mi è sembrata una cosa molto appropriata nel contesto della nostra conversazione sull’era digitale e la sua influenza sulla realtà. 
Comunque sia, posso essere d’accordo solo in parte con il tuo commento sul fatto che siamo una parte inseparabile della realtà e che in qualche modo costruiamo anche delle realtà alternative, ma non penso che siamo veramente dei produttori di realtà, piuttosto ritengo che siamo un piccolo ingranaggio che cerca di capire il notevole meccanismo nel quale ci troviamo. La qual cosa mi riporta al punto che ciò che percepiamo è spesso lontano dalla realtà. Come ad esempio il dato di fatto che ruotiamo insieme alla terra, una cosa che non siamo stati in grado di ri-conoscere fino a poco tempo fa, se pensi all’intero percorso della storia umana, e che tra l’altro è ancora negata dai sostenitori della terra piatta. Trovo che questa oscillazione tra percezione e conoscenza sia affascinante e in qualche modo i Test Flights sono collegati a questo concetto, non solo per l’effetto dell’impatto gravitazionale sulla materia, sul quale è basata l’opera, ma anche perché è stato un esperimento senza un risultato chiaro. La “Società d’Arte Contemporanea” sostenne con coraggio l’opera senza un materiale o una forma definiti, sapendo solo che le sculture sarebbero state generate dalla dinamica dell’esperimento, dalla caduta delle masse di materia delle Torri dell’Economist. Quindi sì, questo lavoro è per molti versi una metafora interessante delle condizioni della nostra esistenza, ed è senz’altro definibile come un salto nell’ignoto».
In questo periodo mi domando spesso quale sia oggi la differenza tra percezione della realtà, nelle sue diverse articolazioni analogiche e digitali, e quale la sua qualità sostanziale, diciamo la sua verità. Paolo Bozzi (1930-2003), uno psicologo italiano tra i principali studiosi di psicologia della Gestalt, che tanto ha lavorato e scritto sulla percezione visiva dei colori, ma anche sulla percezione del moto pendolare come di quella relativa ai piani inclinati, è spesso citato per questa specie di aforisma: “Se in un’isola c’è un gran sasso nero, e tutti gli abitanti si sono convinti – con elaborate esperienze e molto uso della persuasione – che il sasso è bianco, il sasso resta nero, e gli abitanti dell’isola sono altrettanto cretini.”. La frase presuppone che ci sia qualcuno, abitante dell’isola o meno, che sappia indicare con assoluta certezza il colore vero del sasso, che dunque sia in grado di dimostrare attraverso la scienza, e forse anche il buon senso, la verità sul colore del sasso, e quindi la verità propria della realtà. Parlare di verità a proposito dell’arte non è così improprio come si potrebbe immaginare. Theodor Adorno nella sua Teoria Estetica (1970), ad esempio, la pone come elemento decisivo dell’opera d’arte riuscita “la cui forma sgorga dal suo contenuto di verità.”. Un’affermazione che mi pare calzante per il tuo lavoro, che pone a fondamento da una parte la materia e dall’altra la conoscenza perseguita attraverso il filo della scienza.
«È interessante che tu faccia riferimento alla questione della verità, anche perché una delle opere alle quali sto lavorando in questo momento s’intitola proprio A nugget of truth mined form the emptiness of information. È un lavoro che segue il senso di altre opere che ragionano sulle proprietà fisiche dei materiali, come ad esempio Diminishing returns del 2017, anche se ora sto riflettendo in maniera più specifica sul rapporto tra verità e digitale. È fatto di rame, il materiale responsabile del trasporto della nostra elettricità e di molte delle informazioni digitali che trasmettiamo, inclusa la mia risposta inviata alla tua casella di posta. Riproducendo fisicamente una pepita di rame dedotta da un’immagine trovata online, che ho realizzato con un laser CNC (a controllo numerico), si crea un vuoto all’interno del foglio di rame che definisce l’informazione/immagine e fornisce al contempo anche materiale di scarto per reinventare l’oggetto originale come una riproduzione implementata di se stessa. In questo modo immagine, oggetto e verità si confondono. Questa ricostruzione fisica di una pepita materiale da un’immagine di seconda mano, è una metafora della nostra società della “post verità”, nella quale la realtà è di fatto costruita e implementata, gonfiata. L’aforisma di Bozzi sulla popolazione convinta che la pietra sia bianca, mentre è chiaramente ancora nera, mi pare che possa essere senz’altro definita come una vera e propria premonizione del mondo nel quale siamo e che è sempre più condizionato dai social media, da notizie false, più o meno abilmente costruite, che ovviamente hanno inevitabili conseguenze politiche».
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Exhaust, 2011, 24 ore di aria espirata e palloncini di alluminio, Courtesy l’artista e Galleria Michela Rizzo (Photo Credits: Manuel Vason)

Alain Badiou nel suo Alla ricerca della realtà perduta (2016) sostiene che la realtà sia un’imposizione: “Dobbiamo preoccuparci costantemente del reale, obbedirgli, dobbiamo comprendere che non si può fare nulla contro il reale.”. Una considerazione che mi pare possa stare insieme a quella di Thomas S. Eliot che in Burt Norton (1935), il primo dei Quattro Quartetti (1943), scriveva: “Il genere umano non può sopportare troppa realtà.”, come se quell’imposizione della quale parla Badiou potesse essere causa di una sofferenza e di una conseguente necessità di dare forma ad una qualche forma di irrealtà. Le arti, nel passato, sono state anche questo, e in una certa misura lo sono ancora oggi. Ma, come dici giustamente, questo piuttosto che il tempo delle irrealtà possibili, appare come quello delle falsificazioni, o nella migliore delle ipotesi, delle finzioni. Anch’io credo che la questione sia diventata politica in modo preliminare, che il problema della comprensione di cosa sia oggi la realtà vada cioè affrontata in quell’ambito di responsabilità dove la manipolazione, se non proprio la determinazione, della realtà ha conseguenze decisive sulle comunità. Il tuo lavoro X del 2018, in questo senso, mi pare sia una dichiarazione molto esplicita, concentrata sulle conseguenze di azioni che prima di essere previsioni scientifiche o vaticini esoterici o religiosi, hanno appunto una determinazione politica.
«Sì, come dice Badiou non c’è nulla che si possa fare a proposito della realtà o contro di essa, è una cosa inevitabile. Eppure la realtà è spesso più strana della finzione. Un interessante concetto che ho recentemente discusso con un matematico è l’importanza del ruolo dei “numeri immaginari”, che sono derivati dalla radice quadrata di un numero negativo. Concepito dai greci, ma ritenuto impossibile per secoli, il riconoscimento del concetto dei numeri immaginari ha portato alla creazione di un’analisi complessa che è direttamente applicabile a molti calcoli del mondo reale, come il magnetismo e l’aerodinamica. Riflettendo sul lavoro X, mi sembrava interessante riflettere sulla nostra capacità di percepire la realtà, che è in gran parte basata sulla fiducia e sul bisogno di verità. Quello che ci viene insegnato a scuola ci dovrebbe condurre alla verità, ma i libri di testo riflettono solo sul pensiero corrente e naturalmente si evolvono nel tempo. L’opera X fa riferimento a Cosma Indicopleuste, un mercante greco del VI secolo che ha prodotto alcune delle prime e più famose mappe del mondo. Eppure, nonostante i suoi viaggi e l’opinione della maggior parte dei marinai e astronomi del tempo che ritenevano che la terra fosse una sfera, Cosma credette fermamente nella cosmologia della terra piatta, affermando che una terra sferica è “opposta alla ragione ed estranea alla nostra natura e condizione”. Ora accettiamo facilmente che la terra è una sfera, tuttavia essa è percepita in questo modo attraverso informazioni di seconda mano. Il lavoro X è stato realizzato attraverso la collaborazione con persone del Mozambico, dell’Australia occidentale, della Polinesia francese e del Brasile, in luoghi specifici lungo la stessa latitudine che si intersecano attraverso la terra in modo da formare una X perfetta. Ogni collaboratore ha installato verticalmente un palo di legno nella terra, realizzando così quattro marcatori collocati nel paesaggio. Collettivamente questi quattro elementi formano le estremità di una X molto grande, che potrebbe essere letta come una sorta di errore o anche un modo per contrassegnare una posizione specifica su una mappa globale. Il lavoro evoca esplicitamente l’importanza della collaborazione e il valore della fiducia, perché non ero io a viaggiare e ad installare i pali nelle quattro sedi, utilizzando Internet e il GPS, ma ho chiesto a persone che non ho mai incontrato di farlo, dai quali ho ricevuto la documentazione relativa».
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Test Flights, 2009, ceramica, Courtesy l’artista e Galleria Michela Rizzo (Photo Credits: Manolo Verga (installed), Elisabeth Oertel (drop))

Il numero immaginario è un modo davvero notevole, e impeccabile, con il quale la matematica dimostra come sia possibile risolvere un problema che la realtà pone all’apparenza in modo irrisolvibile. E lo fa, come sai bene, isolando l’elemento negativo, il segno meno, che impedisce la fattibilità della radice quadrata del numero in questione. Il processo trova compimento aggiungendo alla soluzione della radice quadrata del numero privato del segno meno, la lettera i, che sta appunto per immaginario. Non è solo l’espressione di una convenzione, ma l’ammissione dell’esistenza di qualcosa di sconosciuto, di qualcosa che sta oltre la realtà, ma che esiste allo stesso modo. Quella lettera i che segue il numero è l’iniziale di immaginario ma è anche, e non di meno, l’apertura della matematica alla metafisica, la dimostrazione logica della sua condizione di intrinsecità alla fisica. In fondo l’arte arriva a conclusioni del tutto simili, anche se con una logica non così lineare, e soprattutto quando cerca di capire, di essere parte della realtà, e non di esserne una più o meno banale rappresentazione.  C’è un tuo lavoro del 2011 intitolato Exhaust, nel quale riempi dei palloncini d’alluminio dell’aria che hai espirato in ventiquattrore. Si forma così uno spazio fisico, tangibile, da qualcosa d’immateriale per definizione, l’aria, che pure è quella che ci consente di vivere. Ecco, Exhaust mi pare sia un’esemplificazione esemplare di questa compenetrazione tra fisica e metafisica nell’essenza stessa della vita.
«La relazione tra fisica e metafisica gioca un ruolo ricorrente nel mio lavoro, e molti dei miei progetti mettono in discussione la realtà attraverso le dinamiche della percezione, dell’esperienza e della sperimentazione.
In Exhaust ero interessato alla connessione tra noi stessi e il mondo fisico. Il nostro impatto su ciò che ci circonda è chiaramente evidente quando ci relazioniamo con degli oggetti, anche se abbiamo la sensazione di essere “altro” dalla realtà che ci circonda quando non agiamo su di essa. Pertanto, raccogliendo e conservando il mio respiro, ero interessato a visualizzare la connessione intrinseca e l’impegno attivo che abbiamo costantemente con lo spazio che ci circonda; in altre parole rendere tangibile la nostra impronta invisibile nella realtà che ci circonda. La raccolta dell’aria da me espirata in 24 ore forma un grande volume, finendo per sminuire il corpo che l’ha prodotta. Dopo Exhaust ci sono stati diversi lavori che hanno mappato le relazioni tra me stesso, noi stessi, e lo spazio, inclusi i disegni di Head, shoulders, knees and toes (2014) e Hairball (2004-14), realizzato con la raccolta dei miei capelli in un decennio, e più recentemente I (2016), che per una strana (o forse no) coincidenza è intitolato come il simbolo di numeri immaginari. In realtà la lettera I è il grammagram di occhio, la lettera che identifica questa parola in inglese, ma anche per estensione l’azione del vedere. Usando una fotocamera endoscopica a capsula ho filmato il percorso dalla mia bocca al colon, in modo da creare un autoritratto interno. Visto attraverso uno spioncino montato nel muro, il video fornisce una finestra in un altro spazio fatto di tunnel e caverne, l’architettura interna del corpo. Si tratta di una sorta di piegatura dello spazio, dove è il sé, ciò che siamo, a definire lo spazio».
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Test Flights, 2009, ceramica, Courtesy l’artista e Galleria Michela Rizzo (Photo Credits: Manolo Verga (installed), Elisabeth Oertel (drop))
Sulle teorie della fisica e in particolare della meccanica quantistica, che per certi versi è metafisica, è fondato almeno in parte il tuo lavoro The End. Un libro che raccoglie previsioni sia scientifiche che fantastiche sulla fine del mondo, elencate in modo cronologico dal 635 AC fino alle recenti previsioni della teoria del Big Rip, per la quale l’accelerazione dell’espansione dell’universo comporterà un aumento dell’energia oscura che fra circa 22 miliardi di anni sarà in tale quantità da distruggere (strappare) tutta la materia che compone l’universo stesso. Se c’è stato un inizio non potrà non esserci una fine. Almeno secondo logica. La narrazione che ne fai nel libro, e nel video che l’accompagna, è infatti priva di drammaticità, consapevole in qualche modo dell’ineluttabilità del processo. Tra le teorie sul dopo, quella più suggestiva, secondo me, è che dopo questo collasso generale si giungerà ad un nuovo Big Bang e tutto, dalla materia al tempo e allo spazio, riprenderà ad esistere. Ma forse la ritengo suggestiva solo perché riconosco in essa l’elemento noto della ciclicità.
«Ho iniziato a lavorare a The End all’inizio dello scorso anno dopo che il Doomsday Clock è stato regolato a due minuti dalla mezzanotte, dove quest’ultima rappresenta la catastrofe globale provocata dall’uomo. Istituito dai fisici nucleari di Chicago nel 1947, il Doomsday Clock segna ora il momento più vicino alla fine, come nel 1953 quando gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica iniziarono a testare la bomba all’idrogeno. Questa estrema vicinanza ad una possibile autodistruzione mi ha spinto a fare una ricerca storica sulle altre previsioni di una catastrofe globale. Inizialmente questa era solo una lunga lista di date e di fatti affissa su un muro del mio studio, e che si collegava ad altri lavori che stavo realizzando con degli specchi rotti. Successivamente li ho redatti cronologicamente in un libro e ho realizzato un film, con le date e i fatti che formano uno strano continuum di possibili finali. Le profezie del passato ovviamente non si sono realizzate e forse anche quelle che riguardano il futuro sono sbagliate. Tuttavia, il lavoro riguarda più il concetto di fine. Come tutto, inclusi noi stessi, e come dici tu, è chiaro che ci sarà una fine. Questo sarà anche inevitabilmente il destino della Terra, dell’Umanità e forse anche della stessa materia che costituisce l’Universo. Ed è probabile che lo stesso tempo finirà e che forse ci sarà un nuovo inizio, ma questa oltre che essere un interrogativo della fisica è anche un’interessante questione metafisica».
The last, but not least.
Raffaele Gavarro
Traduzione dall’inglese di Raffaele Gavarro

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