02 aprile 2019

L’intervista/Ibrahim Mahama

 
ATTRAVERSARE LA STORIA, A PORTA VENEZIA
Incontro con l’autore di “A Friend”, il grande intervento milanese promosso da Fondazione Trussardi

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Tra le opera più attese dell’Art Week 2019, l’installazione monumentale di Ibrahim Mahama, “A Friend”, che inaugura oggi, copre gli ex caselli daziari di Porta Veneiza, a Milano, e promossa dalla Fondazione Nicola Trussardi, con la curatela di Massimiliano Gioni. 
L’artista, nato in Ghana nel 1987, ha già un curriculum da capogiro: ha esposto alla 56ma Biennale di Venezia, a Doumenta 14 e tra poco più di un mese rappresenterà, assieme ad altri connazionali, il Ghana -, presente per la prima volta – alla 58ma edizione della Biennale di Venezia
Abbiamo intervistato Mahama sulla sua ricerca e sul lavoro per Milano.
Sei un artista molto giovane e i tuoi lavori sono già stati esposti in contesti come la Biennale di Venezia nel 2015, Doumenta nel 2017 e e tra poco più di un mese sarai a rappresentare il Ghana alla 58. Edizione della Biennale di Venezia. Puoi riassumerci la tua storia come artista?
«La mia pratica artistica è iniziata al dipartimento di pittura e scultura a Kumasi, dove ho incontrato uno dei nostril professori Karikacha Seidu. Lui ha dato vita al collettivo “blaxTARLINES KUMASI” assieme ad altri docenti che erano molto aperti a nuove prospettive nel mondo dell’altre e oltre. Questo ha ispirato molti studenti della nostra generazione che si stavano preparando a diventare artisti.
Quando sono stato invitato alla 56ma Biennale di Venezia ero cosciente di dover negoziare per avere uno spazio specifico all’Arsenale per la presentazione del mio lavoro. La mia formazione all’Accademia incoraggiava soprattutto la pratica indipendente e la creazione di nuove forme e questo ha concretamente accelerato lo sviluppo della mia ricerca. Sapevo di volermi confrontare con mostre al massimo livello, ma allo stesso tempo non sapevo che sarebbe successo così presto e con una mostra dopo l’altra».  
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Ibrahim Mahama, A Friend, 2019 courtesy Fondazione Trussardi Milano, foto Marco De Scalzi
Quali sono i temi principali della tua ricerca? A quali tematiche sei maggiormente interessato e qual è il tuo rapporto con l’architettura?
«Io sono ampiamente interessato alle contraddizioni, alla trasformazione dei materiali, nonché alla loro relazione con l’architettura. Il mio lavoro si basa sull’uso dell’estetica dell’architettura moderna e sulle sue qualità formali che ispirano la raccolta di determinati oggetti per la produzione artistica. Ad esempio, molti degli edifici pubblici che ho ricoperto in Ghana con i sacchi di juta sono stati storicamente costruiti con il denaro dell’industria del cacao. Noi difficilmente facciamo questa associazione, perché non c’è un collegamento evidente dal punto di vista visivo. C’è qualcosa di fortemente contraddittorio in tutto questo, che personalmente mi interessa molto».
Come è la scena artistica del Ghana? Quali sono i maggiori centri di ricerca artistica del Paese?
«La scena artistica del Ghana è composta da molte differenti istituzioni con diverse posizioni idelogiche rispetto al mondo dell’arte. Ci sono la Nubuke Foundation, l’Artists Alliance Gallery, The loom Gallery, la Gallery 1957, il Centre for National Culture e molti altri. Il mio interesse principale è da sempre rivolto, tuttavia, a blaxTARLINES KUMASI, dove si è sviluppata la formazione teorica del mio lavoro. Un’altra istituzione che lavora silenziosamente con gli artisti è la FCA (Foundation for Contemporary Art) che supporta molte pratiche artistiche in modo transdisciplinare. Recentemente io stesso ho inaugurato un nuovo spazio, SCCA TAMALE (Savannah Centre for Contemporary Art), che ha lo scopo di organizzare retrospettive di artisti la cui ricerca è emersa nel ventesimo secolo e ha ispirato le nuove generazioni di artisti».
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Ibrahim Mahama, A Friend, 2019 courtesy Fondazione Trussardi Milano, foto Marco De Scalzi
Passiamo al progetto per la Fondazione Nicola Trussardi di Milano: è una grande installazione di sacchi in juta cuciti assieme che ricopre gli ex Caselli Daziari di Porta Venezia. Come è nato questo progetto?
«Il progetto di Milano è nato sulla base di un invito da parte di Massimilano Gioni, che era interessato alla mia ricerca. Abbiamo valutato la possibilità di realizzare questo lavoro e lo abbiamo concretizzato. È importante perché è coerente con quella parte della mia ricerca che connette la trasformazione dei materiali con la storia e l’architettura degli edifici.»
Perchè un lavoro di questo tipo per Milano?
«Credo sia importante creare un ponte evidente tra la storia della città, e in particolare dei due Caselli Daziari, con le condizioni globali. I sacchi di juta raccontano delle diseguaglianze globali e credo che aver usato questi materiali in differenti luoghi nel mondo possa sollevare nuovi dibattiti su temi come la circolazione delle merci, lo sfruttamento delle materie prime, le migrazioni e simili».
Come avviene la realizzazione degli enormi teli di juta? 
«Inizia con la selezione da parte mia dei singoli sacchi in juta di cui ho bisogno per realizzare il mio lavoro e, in seconda battuta, dell’architettura su cui devo lavorare; o talvolta inizia proprio dall’architettura, che ispira la forma che prenderà il lavoro. Io acquisto sacchi nuovi e li scambio con quelli vecchi e usati nel mercato del carbone. Questa parte è molto importante per il processo creativo, perché il momento dello scambio dà un valore concreto all’enorme quantità di fatica che quei sacchi racchiudono e che confluisce silenziosamente nel lavoro finale. I miei collaboratori e io facciamo nostro il significato metaforico degli oggetti che usiamo e insieme, ogni volta, impariamo molto durante l’intero processo del lavoro, molte nostre convinzioni ideologiche si trasformano, acquisiamo nuova consapevolezza. Questa per me è la parte più eccitante dell’intero lavoro, perché permette l’emergere di nuove prospettive».
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Ibrahim Mahama, A Friend, 2019 courtesy Fondazione Trussardi Milano
Alcune persone hanno individuate un parallelismo tra le tue opera con i sacchi e i lavori di Christo. Cosa ne pensi?
«Credo che ci siano sempre confronti tra le opere o le pratiche degli artisti. Io sono molto più interessato alle motivazioni che spingono un artista al lavoro che agli esiti formali della sua ricerca. Ho imparato molto dal lavoro di Christo quando ero studente al KNUST Kumasi. Le sue motivazioni mi hanno ispirato molto più della formalizzazione concreta dei suoi lavori».
Puoi anticiparci qualcosa sul lavoro che presenterai alla prossima Biennale di Venezia? 
«Il mio contributo al Padiglione Ghana alla 58ma Biennale di Venezia sarà un’opera a cui ho lavorato negli ultimi tre anni. Sarà intitolata “A STRAIGHT LINE THROUGH THE CARCASS OF HISTORY 1649” ed è stata ispirata da due progetti che ho realizzato nel 2017 a Berlino e a La Valletta».
Silvia Conta

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