15 aprile 2019

I “muscoli” di Helen Frankenthaler

 
Il “color field” della grande pittrice statunitense da Gagosian a Roma, e a Venezia. Una pittura che non ha nulla da invidiare ai migliori lavori di Pollock, Rothko o Kline

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La pittura astratta è sempre stata un’attività intellettuale per artisti uomini, ovviamente bianchi e, ancor meglio, americani. Le donne astrattiste, anche in quella meravigliosa fucina di talenti che fu la New York School dagli anni ’40 alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, si contano sulle dita di una mano. Accanto a Jackson Pollock, Mark Rothko e Willem de Kooning le non meno dotate Lee Krasner (moglie di Pollock che decide cambiare il suo nome di battesimo e fingersi uomo per non incorrere in pregiudizi di genere da parte dei critici), Hedda Sterne e Louise Bourgeois faticarono non poco per ottenere un riconoscimento e, in ogni caso, non raggiunsero mai le vette di notorietà dei loro colleghi maschi. C’è anche da dire che quella prima generazione di astrattiste americane si trovò a lavorare in un momento traumatico della Storia moderna, ovvero fra il dramma della Grande Depressione e la tragedia della Seconda Guerra Mondiale ma, certamente, al di là delle difficili contingenze storiche, il loro essere donne è stato un ulteriore ostacolo e non di poco peso. Non è che le cose siano state più facili per la cosiddetta “seconda generazione di artiste Abstract Expressionist americane” come Helen Frankenthaler, Grace Hartigan e Joan Mitchell che hanno dovuto combattere parecchio per riuscire ad emergere in una scena artistica completamente dominata dai colleghi maschi. Queste giovani e talentuose artiste per affermarsi come professioniste al pari dei loro colleghi fecero dell’essere donne single e sessualmente libere un vessillo contro il sessismo che, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, le avrebbe volute esclusivamente madri e mogli. A questo proposito non dobbiamo dimenticare che gli anni del dopoguerra sono stati, soprattutto in America, dominati da quella reazionaria e misogina “Mistica della Femminilità”, così ben descritta da Betty Friedan nel suo omonimo saggio del 1963. 
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Helen Frankenthaler: Sea Change: A Decade of Paintings, 1974–1983, Gagosian
Per contrastare la limitatezza dei ruoli, immaginari o reali, che la società dell’epoca imponeva alle donne le artiste molte di loro decisero quindi di aggregarsi in delle corporazioni dove poter discutere liberamente del loro lavoro, sull’esempio dei colleghi maschi che dall’800 si ritrovavano nei club e nelle associazioni che erano tradizionalmente sempre stati preclusi alle donne. Il trio Frankenthaler, Hartigan, Mitchell con la poetessa Barbara Guest frequentavano inoltre l’ambiente cosmopolita e intellettualmente super raffinato che si riuniva nella galleria newyorkese Tibor de Nagy aperta nel 1950. La Galleria era frequentata da scrittori, poeti, artiste donne a artisti, principalmente gay come i due fondatori John Bernard Myers e Tibor de Nagy, sofisticati collezionisti che usavano questo luogo per esporre non solo le opere pittoriche dei giovanissimi artisti della New York School, come Frankenthaler e Hartigan, ma anche oggetti strani e meravigliosi come collezioni di pizzi antichi e i dipinti fluorescenti di Marie Menken (il cui lavoro per altro influenzò durante gli anni 60 Andy Warhol). 
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Helen Frankenthaler, vista della mostra, Artwork © 2019 Helen Frankenthaler Foundation, Inc./Artists Rights Society (ARS), New York. Photo: Matteo D’Eletto, M3 Studio. Courtesy Gagosian

Gravitava in quel gruppo anche Clement Greenberg, famosissimo critico d’arte e art advisor di Myers e de Nagy, e fu infatti lui a presentare ai due galleristi i giovani artisti sperimentali, ancora completamente sconosciuti, Frankenthaler, Hartigan, Leslie e Rivers. Questa premessa per spiegare in che ambiente culturale si è sviluppato il lavoro di Helen Frankenthaler, una delle più interessanti artiste astrattiste americane del 900, il cui lavoro finalmente potrà essere conosciuto anche in Europa grazie alla Gagosian Gallery che le dedica ben due mostre. La prima, che ha inaugurato lo scorso 13 marzo, nella galleria di Roma che presenta un focus sul decennio 1973-8, un periodo importante per questa artista che proprio in questo decennio, probabilmente anche grazie alle estati passate a contatto con la natura e i laghi del Connecticut, crea le sue opere di maggior lirismo, e un’antologica a Venezia, a Palazzo Grimani, un importante ritorno dopo cinquant’anni nella città lagunare dove aveva esposto nel Padiglione Americano nella Biennale del 1966. Tutta la produzione di Frankenthaler si è sempre caratterizzata sia per l’intenso lirismo pittorico che per l’uso del “soak-stain”, una tecnica vicina al colour-field painting, in cui il colore veniva usato dopo essere stato diluito nell’acqua. Questa astrazione lirica, tipica degli artisti di questa “second generation” è stata in passato spesso percepita dalla critica come eccessivamente “emozionale” o “intuitiva” quindi “troppo femminile” soprattutto se paragonata a quella “autoritaria” e “assertiva” dei grandi campioni dell’astrattismo come Kooning, Pollock e Kline. La retorica maschilista con i cui i critici dell’epoca valutavano i lavori degli artisti non aiutò la comprensione di questo tipo di pittura che non consideravano abbastanza virile e muscolare. La parola “femminile” era evidentemente usata in queste critiche sempre in senso dispregiativo, come ad indicare una mancanza, una debolezza nel lavoro che invece era, semplicemente diverso, ma non per questo meno forte o meno assertivo. La potenza di queste tele in cui le macchie di colore si sovrappongono dando luogo a superfici di struggente lirismo ci appaiono oggi in tutta la loro potenza visiva e, finalmente in parte liberi da schemi sessisti, possiamo oggi esperire le opere di Frankenthaler senza pregiudizi di genere. Le tele esposte in “Sea Change”, nell’ovale della Gagosian Gallery di Roma, ci trasportano in un mondo poetico di incredibile bellezza formale e, allo stesso tempo, di incredibile forza espressiva. Feather del 1979, in cui i gialli e i rosa si sovrappongono creando inaspettate tonalità cromatiche o il magnetico Dream Walk Red del 1978 non hanno nulla da invidiare per potenza visiva e intensità espressiva ai migliori lavori di Pollock, Rothko o Kline. Helen Frankenthaler muore nel 2011. La mostra è curata da John Elderfield capo curatore emerito della sezione dipinti e sculture del Museum of Modern Art di New York.
Paola Ugolini 

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