02 giugno 2019

BIENNALE/ La contemporaneità di Gandhi

 
Incontro ravvicinato, a Venezia, con gli artisti che si sono ispirati agli insegnamenti del Maestro a 150 anni dalla sua nascita

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Un anno importante, questo, per il Subcontinente indiano che si trova a commemorare i 150 anni della nascita di uno dei personaggi più carismatici del ventesimo secolo, Gandhi, nello stesso anno in cui 900 milioni di cittadini sono stati chiamati alle urne per eleggere il nuovo governo (riconfermando il Primo Ministro uscente, Narendra Modi, leader del Bjp, il Partito del Popolo Indiano).
Il 2019 vede anche il ritorno dell’India a Venezia per la seconda volta nella storia della più antica Biennale del mondo, a distanza di otto anni, con un padiglione ufficiale e, lo diciamo subito, un padiglione da non perdere. 
Negli splendidi spazi dell’Arsenale, la mostra “Our time for a future caring” – una esortazione a prestare attenzione ad un futuro condiviso – racchiude in una atmosfera molto intima, le opere di sette artisti che attraversano il ventesimo secolo fino ai giorni nostri e riflettono sull’eredità di Gandhi e sui valori di non-violenza, equità ed eguaglianza: Nandalal Bose, Atul Dodiya, GR Iranna, Rummana Hussain, Jitish Kallat, Shakuntala Kulkarni e Ashim Purkayastha
In effetti, entrando nel padiglione si ha una sensazione di raccoglimento e di pace, ma non aspettiamoci nulla di didascalico o di documentaristico. Potrebbe sembrare una scelta facile e accattivante quella di usare un leader così universalmente riconosciuto, così carismatico come perno di una mostra e qualche critica, soprattutto in India, questa scelta l’ha sollevata. Ma la qualità degli artisti selezionati e il loro impegno di lunga data con la figura di Gandhi è talmente fuori discussione che la critica ha lasciato spazio all’orgoglio. Anche perché ogni artista ha elaborato ed interpretato la pratica gandhiana fino a farla diventare l’oggetto di una riflessione contemporanea. 
Entrando nel padiglione veniamo accolti da quello che, ad un primo impatto, sembra essere un piccolo museo coloniale: si tratta di Broken Branches, l’opera di Atul Dodiya (Mumbai, 1959). Nove vetrine di legno scuro, sollevate qualche centimetro da terra e leggermente inclinate sulla parte superiore per evitare che gli uccelli vi si poggino sopra, sono la riproduzione di quelle del museo di Kirti Mandir a Porbandar, dove Gandhi è nato e dove vengono conservati i suoi beni. Le vetrine contengono mensole piene di oggetti esposti come reliquie: fotografie sbiadite dal tempo, cartoline, acquerelli e protesi di gambe, assurti a monito contro l’indifferenza e l’oblio. In cima alle vetrine, simbolicamente, le immagini di quegli uccelli ai quali nel museo non viene dato spazio, come anime senza dimora.  Il lavoro è stato realizzato da Dodiya nel 2002, dopo le rivolte del Gujarat durante le quali furono uccisi centinaia di musulmani ed induisti. «Quelle rivolte hanno sconvolto l’India – racconta Dodiya – c’era un sentimento di profondo dolore, regnava l’incertezza sul futuro dell’intero Paese. Quella è la terra che ha dato i natali al Mahatma: dove era finita la sua filosofia della non-violenza e tutti i suoi insegnamenti? Come potevano degli esseri umani covare tanto odio da ammazzare i loro stessi fratelli? Il 2002 ha come segnato la fine di una speranza…tutti gli oggetti esposti nelle mie vetrine parlano di questa perdita, di questo dolore, di questa incertezza. Le protesi, per esempio, parlano di arti amputati, di assenza” continua Dodiya. 
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Atul Dodiya, Broken Branches
Nelle vetrine troviamo anche riferimenti alla vita del padre dell’artista e della sua malattia. «Mio padre era un costruttore, costruiva palazzi, e l’atto di costruire e demolire è molto presente nel mio lavoro, per questo c’è anche una foto delle Torri Gemelle”. La filosofia di vita e l’ideologia di Gandhi secondo me sono molto attuali nel mondo di oggi così difficile, si dovrebbe parlare di più delle ingiustizie che vengo perpetrate ai danni dei più deboli. La violenza diffusa alla quale assistiamo in tutto il mondo – non ultime le bombe nello Sri Lanka che ci hanno toccati così da vicino – e la stessa politica indiana che incita sempre di più verso l’intolleranza, mi spingono ad essere ancora e sempre molto coinvolto sui temi e sui valori del Mahatma. Chiaramente per un artista il problema è come fare convergere tutte queste tematiche in un lavoro creativo e non giornalistico o politico. Ma più vedo nel mondo imposizioni, ingiustizia ai danni delle minoranze, più la mia reazione è quella di parlare di Gandhi”.
Nel lavoro meticoloso di Dodiya c’è un chiaro riferimento a quella che lui stesso definisce “l’estetica” di Gandhi: «il Mahatma era ossessionato dalla coerenza e dall’essenzialità del suo stile di vita e perseguiva il suo obiettivo, quello dell’indipendenza, con una meticolosità stupefacente. Questa per me è l’estetica di Gandhi. Il suo modo di vestire (o di non vestire), la non-cooperazione, le sue marce, in tutto ciò c’era molta estetica. E tutto questo mi affascina e mi ispira moltissimo, tanto da avergli dedicato più di duecento delle mie opere.”
Al centro del padiglione si trova invece una sala chiusa, entrando nella quale ci immergiamo nell’installazione spettacolare di Jitish Kallat (Mumbai, 1974). Siamo in una scatola nera, nella parete davanti a noi una cortina bianca di nebbia sulla quale lentamente vediamo proiettata una lettera il cui incipit è “Dear friend”, solo al termine della lettera si legge la firma, MK Gandhi. Si tratta di una lettera scritta dal Mahatma nel 1939 ad Adolf Hitler per spingerlo a riconsiderare i suoi mezzi violenti. «Covering Letter – racconta Kallat – proprio come le mie tre precedenti opere Public Notice, riflette su un aspetto della storia che potrebbe essere riproposto per ripensare il presente. C’è un senso di perplessità nel modo in cui Gandhi sviluppa il suo discorso, quale principale fautore della pace in quel momento storico, saluta Hitler, uno degli individui più violenti di quell’epoca, come amico. Come molti dei gesti di Gandhi e dei suoi esperimenti di vita, questo pezzo di corrispondenza sembra una lettera aperta destinata a viaggiare oltre la data di consegna e il destinatario esplicito, una lettera scritta a chiunque, ovunque e per sempre.” Al centro dell’installazione c’è lo spettatore, che viene letteralmente avvolto dalle parole, che entra a far parte di quella lettera e che può addirittura attraversarla, passando sotto la cortina di nebbia bianca. «Ogni visitatore – continua Kallat – porta in questo lavoro esperienze personali, sociali, culturali e storiche diverse, in questo modo alterando il significato dell’opera. Sono molto interessato a vedere come questo rapporto con l’opera si sviluppa nel contesto di Venezia. Ogni iterazione del lavoro ha generato una nuova dimensione imprevista del significato dell’opera. Per esempio, solo due giorni prima che il lavoro fosse esposto al Philadelphia Museum of Art, Donald Trump è stato votato al potere alla fine di un’elezione molto avvelenata e controversa. Questo evento ha completamente modificato la lettura di Covering Letter. Posso dire che le parole di Gandhi a Hitler sembrano rivolte a chiunque, in qualsiasi luogo e tempo, dal momento che permettono di riflettere su se stessi e introspettarsi”.
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Shakuntala Kulkarni, Of Bodies, Armour and Cages
Continuando nel percorso della mostra incontriamo un altro lavoro particolarmente interessante di una delle due donne che espongono nel padiglione indiano, Shakuntala Kulkarni (Dharwad, 1950) dal titolo Of Bodies, Armour and Cages. Il collegamento con il pensiero gandhiano nel lavoro di Kulkarni è molto sottile: le sue armature realizzate con le canne di bambù hanno una doppia lettura, rappresentano sia una protezione del corpo femminile, che la sua gabbia. La riflessione dell’artista parte dal concetto di non-violenza per affrontare il tema della violenza sulle donne e sulla scarsa visibilità che questo dramma ha nella società indiana e purtroppo non soltanto in quella indiana. Un altro concetto che collega il suo lavoro alla filosofia di Gandhi è quello dell’abolizione delle caste e delle gerarchie anche nel lavoro, eppure a tutt’oggi lei stessa ha sperimentato le difficoltà e le resistenze incontrate nel fare lavorare insieme a lei, come fossero una sola squadra, i due artigiani di provenienze molto diverse che l’hanno aiutata nell’intrecciare le canne e realizzare l’armatura. 
La mostra continua con l’opera di Rummana Hussain (1952–1999) la seconda presenza femminile del padiglione, riconosciuta come la prima performance artist indiana. Il suo lavoro è stato profondamente segnato dalle rivolte di Babri Masjid e la sua opera Fragments – composte da materiali poveri come argilla, mattoni, una pentola spaccata in due dalla quale fuoriesce la polvere rossa di gheru, mattoni, frammenti di terracotta -, evoca da una parte la vita dei villaggi, dall’altra la rottura, la violenza del conflitto. La Hussain, sconvolta dagli eventi di Ayodhya del dicembre 1992 (che rappresentano uno spartiacque tra l’India multiculturale e quella dell’intolleranza religiosa), intraprese un percorso di ricerca sull’emarginazione e ora, a distanza di 25 anni dalla creazione dei suoi lavori, in un’epoca difficile come la nostra, questi oggetti ritrovano nuovo vigore.
Continuando il percorso incontriamo una parete del Padiglione ricoperta dai sandali di GR Iranna (Sindgi, 1970). La sua installazione Naavu (We Together), è una composizione di decine di padukas, i sandali indiani tradizionalmente realizzati in legno, un oggetto-simbolo di Gandhi (anche se meno noti dei suoi occhiali, ormai una icona universale), che rappresentano la sua idea di resistenza politica passiva attraverso l’azione collettiva della marcia. La forza di questo lavoro sta nella sua prospettiva: se visto da lontano, l’enorme insieme di sandali conferisce all’opera la forza della massa. Ma avvicinandosi, ci si accorge che ogni sandalo è diverso dall’altro, come lo è ogni individuo: persone di ogni ceto sociale unite nella marcia e nella lotta pacifica.
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GR Iranna, Naavu
Quasi di fronte all’opera di GR Iranna, incontriamo quella di Ashim Purkayastha (Digboi, 1967), artista eclettico le cui opere hanno una forte componente di critica socio-politica. Diventato famoso per il suo lavoro Gandhi/Man without Specs (Gandhi/Uomo senza occhiali), Purkayastha si interroga sul motivo per cui non si debba poter mettere in discussione anche leader come “Il Padre della Nazione”. A Venezia l’artista ha portato la sua serie di francobolli Farmers, una riflessione sul fatto che le entrate derivanti dalla vendita dai francobolli non raggiungono mai i coltivatori. Shelter, invece è una installazione realizzata con pietre raccolte in giro per la città di Delhi, pietre che potrebbero essere viste come simboli di violenza, o come strumenti per costruire una casa, il sogno inseguito da centinaia di migliaia di migranti che arrivano nella città in cerca di una vita migliore.
Il percorso del padiglione si conclude con un omaggio al modernismo indiano con gli Haripura Posters, le tempere su pannelli di carta del maestro Nandalal Bose (1882-1966), commissionati direttamente da Gandhi per il Congresso nazionale indiano che si tenne nel 1938 ad Haripura, appunto. I sedici pannelli sono stati realizzati con carta fatta a mano stesa su pannelli di paglia e pigmenti naturali che ritraggono scene rurali, denotando lo stretto rapporto che c’era tra Gandhi e Bose e la sua capacità di rappresentare la filosofia di vita del Mahatma.
Il padiglione indiano è il risultato di una interessante iniziativa pubblico-privato tra il Ministero della Cultura indiano, il Kiran Nadar Museum of Art (che ha curato la mostra), la National Gallery of Modern Art e la Confederazione dell’Industria indiana.
Segnaliamo infine, che la presenza indiana a Venezia non si esaurisce con il padiglione ufficiale, ma vede la partecipazione – sempre all’interno dell’Arsenale – di altri tre artisti le cui opere sono di rara intensità: Shilpa Gupta (con l’installazione For, In Your Tongue, I Cannot Fit), Gauri Gill (con la serie di fotografie Acts of Appearance e Becoming) e Soham Gupta (con i ritratti della serie Angst).
Insomma, una presenza numerosa e di spessore quella del subcontinente indiano su uno dei palcoscenici più prestigiosi del mondo che denota un momento di particolare fermento dell’arte contemporanea indiana. Da seguire.

Maria Teresa Capacchione

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