14 giugno 2019

BIENNALE/ L’APPROFONDIMENTO

 
L’ARTICO C’È
Arte e ambiente, nazione per nazione, a Venezia. Tra paradossi e buoni risultati (prima parte)

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Non aspettatevi una descrizione dei 10 migliori padiglioni della Biennale o dei migliori padiglioni in assoluto, o gli artisti che non vi dimenticherete o qualsiasi altro tipo di classifica. Questo pezzo è una testimonianza sincera, critica e personale di quello che ho visto e sperimentato quest’anno alla Biennale d’Arte di Venezia, durante la prima settimana di preview, dedicata ai progetti e alle opere d’arte ambientale. Parla di impegno e significato, piuttosto che di valori di mercato e di intrattenimento. Forse non intercetterà il gusto di tutti, ma va bene così. Prendendo solo un numero ristretto di opere, non pretendo in nessun modo di essere esaustiva. La critica ha ancora il diritto di essere critica con l’arte di oggi e con i suoi creatori.
Ho camminato per gli spazi dell’Arsenale e i Giardini, oltre ad assistere ad alcuni eventi collaterali e altre esibizioni collegate alla Biennale di Venezia, senza – ovviamente – l’utopico obiettivo di vedere tutto. Ho deciso quindi di scrivere riguardo ai progetti ambientali dalla prospettiva dei diversi continenti. Per questo motivo non troverete la mia spiegazione del Padiglione Centrale o una riflessione sul concetto generale del curatore. 
Ovviamente il curatore della Biennale di quest’anno, lo statunitense Ralph Rugoff, direttore della Hayward Gallery di Londra, ha scelto una linea tematica abbastanza aperta e intangibile perché non risultasse troppo politica: “che possiate vivere in tempi interessanti” (May you live in interesting times). Un motto che lascia comunque spazio per gli approcci ambientali, che possibilmente lui stesso voleva suggerire, invitando i curatori e gli artisti a parlare del cambiamento climatico, dal momento che si tratta di uno dei temi più in voga del momento e non può essere ignorato. I risultati sono stati piuttosto divergenti. 
Ho visto esempi molto discutibili di opere che semplicemente cavalcavano l’onda di questa tendenza contemporanea, e ho visto progetti veramente convincenti che includevano fatti reali e mostravano al pubblico cosa siano l’arte, il cambiamento climatico e la cura per l’ambiente e in cui gli artisti e le loro opere sono un agente per il cambiamento in questo conflitto politico, ambientale ed esistenziale. 
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Padiglione Lituania, 58ma Biennale di Venezia
Ovviamente la quantità di progetti artistici a Venezia cresce ogni anno, mentre qualità e trasparenza stanno diminuendo: un fenomeno che sfortunatamente ha affettato tutto il mondo dell’arte contemporanea, in particolare negli ultimi 10 anni. 
Questo è il motivo per cui non andrò oltre nel cercare di capire il padiglione che quest’anno è stato premiato con il Leone d’Oro, un simpatico centro di intrattenimento per i visitatori che, come hanno proclamato felicemente alcuni opinionisti d’arte, non hanno sentito un approccio didattico al cambiamento climatico, ma hanno potuto semplicemente godersi un’opera lirica guardando un po’ di gente sulla spiaggia e perfino partecipare (sì, anche la partecipazione è un tema molto importante oggi, non importa come poi venga sviluppato) anche se poi non potevano capire realmente di cosa trattasse l’opera. Ma va bene così, l’esecuzione era molto professionale. L’artista, uno dei tre finanziatori del progetto, quando le hanno chiesto su cosa fosse incentrato il padiglione ha risposto: «È un lavoro sul cambiamento climatico», mi hanno risposto le artiste con certa insicurezza e la paura che arrivassero altre domande scientifiche (che non ho fatto). Magari, di fronte a questa smisurata minaccia che è il cambiamento climatico, bastasse guardare un po’ di gente sdraiata sulla spiaggia che canta un’opera e dire: “Eh, sì, il cambiamento climatico è una cosa terribile e noi umani siamo troppo pigri e ignoranti e preferiamo rimanere nella nostra comfort zone”, per poi andare via, prendere un taxi d’acqua per l’aeroporto e ritornare in jet privato ai nostri remoti Paesi!
Niente paura, non inizierò a parlare delle cause e soluzioni (se mai ce ne fossero) del cambiamento climatico, di surriscaldamento globale, deforestazione, plastica e inquinamento atmosferico, innalzamento del livello dei mari, sesta estinzione di massa e così via. Ma avrete capito in che direzione voglio andare.
Se l’arte inizia ad includere nel proprio discorso questa minaccia contemporanea, significa che parlarne non è solo di moda, ma che è un problema reale e che gli artisti vogliono prendere parte nel promuovere consapevolezza e possibilmente contribuendo anche al cambiamento comportamentale e politico. Si tratta di un tema troppo serio per cui non basta creare semplicemente qualcosa di esteticamente bello, farci intorno qualcosa di pseudo-artistico e venderlo. Affermazione, questa, troppo ingenua o moralistica?
Diamo ora uno sguardo ai diversi continenti e alle proposte artistiche (in ordine alfabetico, non in ordine di dimensione o ricchezza o importanza o gusto personale):
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Padiglione Ghana, 58ma Biennale di Venezia
Africa
Padiglione del Ghana
È la prima volta che il Ghana partecipa con il proprio padiglione all’interno dell’Arsenale. Sono state selezionate figure importanti della scena artistica ghaniana, e della relativa diaspora. Voglio menzionare il lavoro di due di questi artisti: A Straight Line Through the Carcass of History 1649 (2016-19) di Ibrahim Mahama, e The Elephant in the Room – Four Nocturnes (2019) di John Akomfrah. Il lavoro di Mahama non parla solo di storia e colonialismo, ma anche di affetti e sapere tradizionale, elementi di prima importanza nello sforzo che oggi si fa per la protezione dell’ambiente, di fronte a varie forze che invece portano alla distruzione di massa del sapere indigeno e tradizionale, incluse le lingue. Questo lavoro è una magnifica espressione di cosa c’era e di cosa ancora esiste in molti Paesi dell’Africa e che merita di essere salvaguardato. L’installazione video a tre grandi schermi HD di John Akomfrah, è come sempre tecnicamente impressionante perché le immagini e i suoni sommergono lo spettatore, parlano della violenza nel Continente Nero attraverso l’ambiente, inclusa la flora, la vita marina e la fauna, rivelando le forze che guidano l’umanità: l’avidità e la depravazione. Il padiglione era così affollato durante l’inaugurazione che è stato necessario visitarlo altre volte.
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Padiglione Canada, 58ma Biennale di Venezia
Americhe
Padiglione del Canada
Isuma.tv al padiglione del Canada: è sempre una sfida apprezzare la video art e prestarle la dovuta attenzione durante i giorni di inaugurazione come quelli della Biennale di Venezia, in particolare se si tratta di video di più di tre ore. Ma il padiglione del Canada, con l’installazione video di Isuma One Day in the Life of Noah Piugattuk e i webcast Silakut Live from the Floe Edge (“IsumaTV è una piattaforma multimediale di collaborazione per film-makers e organizzazioni media indigeni”) è un’eccezione. Lo spettatore che si interessi alla questione di come le culture e le tradizioni indigene e il loro benessere stiano influenzando la vita del pianeta viene subito assorbito dai film e dal loro contenuto, i quali raccontano la storia di una famiglia Inuit sull’Isola di Baffin, nell’Artico canadese, che nel 1961 è costretta a lasciare la propria terra. A questa si giustappone la storia dell’incontro con un rappresentante di una compagnia mineraria che ordina l’espulsione del gruppo Inuit nei pressi di Piugattuk al fine di consentire la costruzione di una ferrovia che taglierà l’Isola di Baffin per trasportare milioni di tonnellate di acciaio. I video parlano di colonizzazione, distruzione della terra dei primi nativi e, con quella, delle vite di molti Inuit. Parlano dell’uomo che intacca e distrugge terre e popoli innocenti, parla ancora di avarizia e di sviluppo, mentre il tutto rimanda alla situazione che affrontiamo oggigiorno. Distruzione ambientale, ricollocazione di popoli e colonizzazione contemplate dalla prospettiva delle famiglie Inuit nell’Artico canadese. Una presa di posizione forte, un padiglione di impatto se ci si prende il tempo di sedersi o di sostare davanti agli schermi e di guardare quelle immagini forti e ascoltare l’intensa lingua inuktitut e i suoni dell’Artico. Una curatrice tedesca, quando le ho menzionato la mia opinione sul lavoro di Isuma, mi ha detto semplicemente che il lavoro era “piacevole”, cosa che ho trovato fortemente offensiva per il fatto che si trattava di un lavoro che concerne fatti e drammi effettivamente reali, presentati in maniera immersiva, e per niente piacevoli come l’opera in spiaggia, se ci si prende il tempo e si cerca di capirne la sostanza. E ascoltare i suoni e la lingua Inuit toglie il fiato e ci ricorda le cose reali che vale la pena proteggere, lontano dall’intrattenimento spiccio, telefoni cellulari, connessioni internet, Game of Thrones e un caffè espresso preso in una tazzina di plastica.
Anne-Marie Melster
Continua
Traduzione dall’inglese di Riccardo Franzetti

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