30 giugno 2019

Il Barocco di Jan Fabre

 
L’artista fiammingo in mostra a Capodimonte, partendo da un “corallo” per parlare e raccontare di sé e di noi, e della nostra vita di esseri umani

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Che cos’è? Un cuore? La domanda è di una visitatrice che sta guardando, nella reggia-museo di Capodimonte, un’opera di Jan Fabre. Verrebbe voglia di risponderle di no. Ma non si può negare che quell’oggetto in mostra abbia una forma che molto si avvicina a quella di un cuore. Eppure non è un cuore. Questo oggetto di rosso corallo si ispira alla realtà ma diventa altro, rifugge dall’imitazione e diventa arte, pulsa di vita propria e si trasforma in simbolo, di un intrico di pensieri, sensazioni, sentimenti profondi, viscerali, carnali, veraci, indistinti. 
Jan Fabre, artista fiammingo di fama mondiale, in questa mostra ricchissima, che, fino al 15 settembre, sarà a Capodimonte, ci parla a lungo e racconta di sé e di noi, della nostra vita di esseri umani. 
Rappresenta cuori, teschi, crocifissi, spade, pugnali, la guerra, la cattiveria, la bellezza della forza, l’ironia dell’intelligenza. In un insieme di colori luminosi: il bianco tinto di rosso nei disegni tracciati col sangue, il luccicore dell’oro nelle opere eseguite dall’artista dal ’70 in poi, il brillio del corallium ruber del Mediterraneo nelle dieci recentissime opere fatte apposta per Napoli. Questo corallo rosso viene lavorato, in antichi laboratori, nella cittadina vesuviana di Torre del Greco. Sembra abbia un valore esoterico, è considerato un portafortuna e ha una precisa origine nella mitologia. Perseo, figlio di Giove e della bellissima Danae (di lei c’è un ritratto, opera di Tiziano, proprio a Capodimonte), uccide la terribile Medusa, ne prende il capo sanguinante e lo offre a Poseidone, mentre nelle acque del mare scorrono gocce di sangue: il rosso corallo.
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Jan Fabre, Self-portrait with the Tongue of Love, 2019, corallo prezioso di profondità, pigmenti, polimeri
A Capodimonte, Fabre già era venuto con una mostra di opere luccicanti del verde cangiante di tantissimi piccoli gusci di scarabei: una grande spada, simbolo di coraggio e di potenza, e un grande quadro che, con il logo delle ferrovie del Congo Belga, sintetizzava la conquista gloriosa e terribile di quella terra e dei suoi abitanti. La mostra era stata curata da Laura Trisorio e dal direttore di Capodimonte, Sylvain Bellenger, che la aveva inserita nella serie “Incontri sensibili”. E vi aveva aggiunto, evidenziandone le analogie, quattro teche che ricordavano l’uso, soprattutto seicentesco, delle Wunderkammer, stanze o scatole di oggetti naturali o artificiali interessanti per loro strane peculiarità.  Il Seicento è un secolo di investigazioni sulla natura e di alchimia, di scienze e di religione, di sangue e di guerre. È il Barocco. Fabre ha una sensibilità analoga, tanto da poter essere considerato, forse, un artista barocco contemporaneo. Che suggerisce, con le sue opere, la contemporaneità della storia e quindi, affermando che il passato non passa mai, l’inesistenza di un meccanico tempo progressivo.  Anche Stefano Causa, curatore della mostra odierna insieme a Blandine Gwizdala, accosta diverse altre opere a quelle di Fabre, rivelandone le analogie e rafforzandone il significato. 
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Jan Fabre, Golden Human Brain with Angel Wings, 2011, bronzo silicato, oro 24 carati, Nero Assoluto
Così aggiunge diversi quadri del Seicento fiammingo, che rappresentano quei peccati capitali che costituiscono anche gli umani piaceri della vita. Contrasti dell’animo umano, che Fabre non manca di evidenziare nelle sue opere. E ancora a Capodimonte continua l’accostamento diretto tra Fabre e il Seicento, con la contemporanea mostra “Caravaggio e Napoli”, fino al 15 luglio.  Ancora una volta, Bellenger accoglie a Napoli un grande artista evidenziandone i legami con la città. Se Fabre le si avvicina con l’uso del corallo napoletano, la mostra su Picasso svelava come la cultura popolare napoletana abbia influito su di lui. Caravaggio, Picasso, Fabre. Tutte e tre forti personalità rivoluzionarie, lontane dal classicismo accademico. Che è espresso, invece, in contemporanea, sempre nella reggia di Capodimonte, fino al 30 settembre, in “Un restauro in mostra”, che svela il meccanismo della costruzione delle sculture di Antonio Canova: dal bozzetto in terracotta al gesso precisamente misurato con i calcoli numerici occorrenti alla equipe dei marmorari che realizzavano le opere del Maestro.
Due mondi diversi, due modi diversi di concepire la tecnica, l’arte e l’umanità.
Adriana Dragoni

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