06 ottobre 2015

Colonialismo francese

 
Musei come brand mondiali: dopo il Louvre e il Guggenheim è la volta del Pompidou, che non si accontenta di un pop up a Malaga ma vuole rafforzare la sua presenza a est. E anche a sud. Un “effetto” monopolio sotto forma di dialogo. E dove finisce la natura del museo e inizia quella del blockbuster?

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Che esistano musei e Paesi “accentratori” del sistema dell’arte lo sappiamo bene, e siamo soliti a corrucciarci perché l’Italia ne è esclusa, senza troppe discussioni.
Ma ci sono strutture che, nell’epoca della “sostenibilità”, non mirano tanto ad includere quanto a diventare inclusive, per ritagliarsi sempre più ampie fette di pubblico e mercato, in una logica assolutamente vicina a quella imprenditoriale.
Il caso del Centre Pompidou di Parigi è emblematico: dopo il Pop Up a Malaga, che non solo rivitalizzerà la città spagnola ma getterà anche le reti della Francia sul suolo iberico, il Presidente del museo Serge Lasvignes, ha dichiarato l’intenzione di aprire sedi in Cina e Corea, seppure sempre in forma “temporanea”. Seoul, ma anche Pechino e Shanghai, saranno le piazze principali di questa operazione, mentre c’è in ballo anche l’idea di trasferire gli store con il magazzino del museo alla periferia nord della Capitale francese.
«Il mio obiettivo è quello di avviare un dialogo con centri stranieri che ci consentiranno di costruire le nostre collezioni per il futuro. Ad esempio, abbiamo pochissime opere di artisti messicani, che stanno diventando troppo costosi per l’acquisizione», ha spiegato il Presidente. Come ovviare a questo punto spinoso? Beh, semplice: andando direttamente ad operare sul territorio, e magari producendo. Un po’ come il tessile, la meccanica. 
Insomma giusto, se si hanno mire di crescita esponenziale, un po’ come è giusta l’intenzione di aprire uno spazio di 400 metriquadrati dedicato «ai giovani artisti provenienti da tutte le discipline delle arti», continua il Presidente che annuncia anche una mostra sulla Beat Generation e una sull’Arte Povera.
Senza nulla togliere al Pompidou, però, è un po’ come se queste due ultime “perle” un po’ populiste facessero a gara con il MoMA di Klaus Biesenbach e il MoCA di Jeffrey Deitch, finiti un po’ maluccio – per certi versi – nell’opinione internazionale dell’arte.
Speriamo possa andare meglio la mostra che indagherà la produzione artistica di Beirut (sulla falsariga di quella che era stata la bellissima Paris-Delhi-Bombay?) e anche la nuova biennale. Già, una nuova biennale, ovviamente non tradizionale: «Si chiamerà “Cosmopolis” e cercheremo di mettere in scena uno spettacolo lontano dal circuito tradizionale dell’arte, e ci aiuteranno un gruppo di artisti francesi, che lavoreranno su un particolare progetto», spiega Lasvignes. Insomma il site specific è globale, e la promozione dei talenti di domani, francesi e affini, non è mai stata così chiara come dichiarazione di intenti. E forse avremmo bisogno di qualche lezione da questa parte delle Alpi, almeno per capire come accendere il motore della macchina. (MB)

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