27 luglio 2016

I fantasmi e il sé del colonialismo

 
Ancora pochi giorni per vedere una bella mostra a Villa delle Rose di Bologna. Soprattutto per imparare qualcosa sul confronto/scontro delle civiltà. Oggi tornato attuale

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“Ghosts and the self”, letteralmente “I fantasmi e il sé”. Un titolo arcano e suggestivo scelto per una mostra che prova a ragionare sull’Europa di oggi, sulla sua debolezza politica e sui suoi enormi problemi sociali. Gli autori sono tre giovani artisti di origine mitteleuropea – Stephan Kobatsch, austriaco e Clemens Leuschner e Jenny Wolka, entrambi tedeschi – riuniti nel collettivo Mahony Collective, costituitosi a Vienna nel 2002. Il collettivo Mahony è il primo ospite del nuovo programma di residenze d’artista indetto dal MAMbo e intitolato ROSE – dal nome della sede espositiva, Villa delle Rose, che accoglie in una mostra finale i lavori prodotti durante la residenza –  realizzato grazie al lascito testamentario della professoressa Sandra Natali e curato da Giulia Pezzoli. 
Al centro della pratica artistica del collettivo austro-tedesco c’è l’analisi dei diversi sistemi di conoscenza e di produzione del sapere, nonché l’indagine sui processi di trasposizione e di decontestualizzazione culturale, condotta impiegando una grande varietà di mezzi espressivi: dal video, alla fotografia, alla scultura, alla performance. In “Ghosts and the self”, progetto realizzato in collaborazione con il Museo di Antropologia dell’Università di Bologna, il collettivo Mahony si concentra su uno tra i più controversi processi storici su cui si è fondata l’Europa contemporanea, ovvero sull’ideologia colonialista. Un’eredità del passato che oggi, proprio come un fantasma che si ostina a non abbandonare la vita terrena, si rivela ancora viva nella nostra quotidianità, nelle nostre usanze e nel nostro pensiero. «Siamo circondati da tracce spettrali della nostra storia coloniale. Sono ovunque, nelle targhe e nei monumenti; nelle narrative dei musei, soprattutto quelli etnografici, che fanno tuttora fatica a venire a patti col proprio peccato originale di complicità coloniali; nell’architettura o nella toponomastica di interi quartieri», precisa Giulia Grechi, antropologa visuale, autrice di uno dei tre contributi critici presenti nel catalogo che accompagna la mostra. Nei confronti del colonialismo, sottolinea la studiosa, la nostra società occidentale ha sviluppato quel processo di “oblio selettivo” teorizzato da Paul Ricoeur. Noi italiani, in particolar modo, rincuorati dal mito dell’essere “brava gente” e autori di un “colonialismo minore”, abbiamo letteralmente “rimosso” o “represso” nella nostra memoria collettiva la nostra colpa coloniale. «Del colonialismo è stata cancellata la radice violenta e razzista, per spostare quell’evento complesso nel regno dell’esotico, del paternalismo, del “posto al sole”, del “sogno africano”», conclude Grechi.
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Varcare la soglia di Villa delle Rose, ovvero entrare all’interno di una villa nobiliare eretta sul finire del Settecento su un piccolo colle appena fuori dal centro storico di Bologna, è come fare un salto nel tempo e proiettarsi in pochi istanti in un’atmosfera che riproduce perfettamente quel passato per noi così scomodo. Una coincidenza, se vogliamo, che veicola “Ghosts and the self” in un status di denuncia ancora più radicale. Inseriti nel pieno clima positivista che ha fatto da sfondo alle teorie razziste e dominatrici, sono gli strumenti di misurazione antropometrica che ispirano i lavori all’ingresso della mostra: la serie Testimonianza disincrostata #1 e #2 presentano oggetti che ricalcano le forme dei fonografi e delle scale cromatiche con cui i coloni classificavano le popolazioni sottomesse, registrandone le voci, il colore della pelle, la conformazione del cranio e i tratti del volto. Sofferenze di cui rimangono tracce in quelle macchie simili a volti sofferenti e sfuocati riportati sulle lastre di vetro de La formazione della cattiva fede. Uno studio, quello ottocentesco, che è partito da una volontà di capire e di conoscere il diverso per trovare il fondamento scientifico della sua diversità, giustificando il valore minore di queste popolazioni rispetto all’uomo bianco europeo e autorizzando, così, la sua azione di dominio. Si è creata volontariamente una cesura tra le due culture, una posizione di incomunicabilità che è ben espressa nell’opera Il Raduno: 120 statuette in gesso, dalla forma modernista e arcaica allo stesso tempo, sono collocate su una struttura di metallo a più ripiani, posta al centro della sala, che rievoca i modelli dei vecchi espositori museali. 
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La scelta di presentare questi oggetti girati, rendendone visibile solo il retro, è un atto dimostrativo nei confronti di quel processo di decontestualizzazione operato dai governi europei quando scelsero di esporre i manufatti depredati dalle popolazioni sottomesse all’interno dei nostri musei, come fossero trofei di guerra. Oggetti sacri esibiti come banali feticci, resi incapaci di comunicare allo spettatore la loro autentica valenza simbolica. Una depredazione scellerata che, per fortuna, non ha trovato sempre consensi unanimi. E c’è chi, come il movimento surrealista, dimostra apertamente il proprio dissenso organizzando una contro-mostra all’Esposizione Universale di Parigi del 1931, manifestazione che ruotava proprio attorno al consenso sulla funzione civilizzatrice dell’azione colonialista. Tracce del manifesto della mostra surrealista affiorano nell’istallazione La verità sulle colonie, la prima che si incontra al secondo piano di Villa delle Rose. Ci riporta invece alla nostra attualità Porto Sicuro (spettacolo europeo), tra i lavori più di impatto presenti in mostra. Stese come fossero teli da spiaggia, tre coperte militari mostrano allo spettatore, ricamate, le figure di Tritone, Minerva e Hydra. I nomi di questi tre personaggi mitologici sono stati assegnati alle operazioni di controllo del progetto Frontex, l’agenzia dell’Unione Europea fondata nel 2004 allo scopo di proteggere i confini dell’Europa. Su di esse è posto un libro di piombo, che riporta il titolo del poema di Kipling, The white man’s burden (il fardello dell’uomo bianco), considerato come un vero e proprio manifesto dell’imperialismo europeo. E poi ancora opere come Variazione sul cappello di piume – realizzata nel 2012 e ispirata alla disputa per la restituzione al governo messicano da parte delle autorità austriache del Copricapo di Montezuma conservato al Weltmuseum di Vienna – o La fantastica invasione (2015) – che invece indaga come la nuova iconografia coloniale si sia inserita facilmente nella cultura visiva occidentale – ci connettono saldamente con quelle tracce spettrali della cultura coloniale ancora presenti nella nostra società, citate nel testo di Giulia Grechi. 
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“Ghosts and the self” è una mostra complessa da vedere e da tornare a rivedere, per poter cogliere al meglio i numerosi spunti di riflessione messi in essere dal collettivo Mahony. E proprio mentre negli occhi abbiamo ancora vivo l’orrore delle immagini delle stragi di Nizza, di Istanbul, di Bruxelles e di Parigi, “Ghosts and the self” si rivela un prezioso ammonimento per non scadere nei facili divisionismi tra “buoni” e “cattivi”, a cui sempre più ci sta abituando tanta brutta – e facile – propaganda politica, ma ci si rapporti ad essi con la lucidità di un’indagine storica intellettualmente onesta. Ragionando anche sulle nostre colpe e sulle nostre responsabilità. 
Leonardo Regano

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